“La nostra unica sicurezza è l’abilità di riuscire a cambiare”.
Chi lavora nel settore della comunicazione, che sia dal lato creative industry che dal lato marketing, sa bene che questa è tra le poche frasi che è possibile sottoscrivere senza timore di essere smentite. Saper cambiare in un settore basato sul cambiamento (per ragioni sociologiche, oltre che economiche e strutturali) è un po’ come essere dei bravi surfisti nell’oceano. Non fa per tutti e non è da tutti. Avere sicurezza in se stessi significa avere la consapevolezza di saper assorbire i contraccolpi del cambiamento piuttosto che la rigidità di opporsi ad esso.
Le aziende stanno richiedendo un cambiamento del proprio asset comunicativo? Con quali modalità?
Difficile rispondere in maniera generalista. Io mi occupo di brand identity e contenuti editoriali, e quello che vedo dal mio personale osservatorio è che assistiamo ormai da tempo ad un processo di polarizzazione del mercato. Funzionano gli estremi – il massimo, cioè le azioni di comunicazione configurate per rispondere all’aspetto aspirazionale – e il minimo cioè la comunicazione utilitaristica di solito delegata al web e alle app. Pressoché assente invece tutto ciò che era (era) nel mezzo. Quello che in inglese si chiama average. Che in Italia un tempo si chiamava BTL, cioè tutti quei prodotti intermedi che erano le famose “brochure di prodotto”.
Per aggiudicarsi una fetta di mercato “aspirazionale” occorrono però competenze e capacità che non si improvvisano, un po’ come non ci si improvvisa surfisti 😉
In che modo si è riuscito a comunicare in un periodo di pandemia? Che difficoltà si sono incontrate sui diversi fronti merceologici?
Ormai è stato già detto su tutti i canali che la pandemia ha fatto da acceleratore dei processi e delle tecnologie. Non serve quindi ribadirlo. Per quanto mi riguarda sono rimasta piacevolmente sorpresa dalla fluidità con cui si sono affrontati i nuovi e inediti scenari che il Covid ha imposto a clienti e fornitori di varia estrazione taglia e cultura. Più o meno tutti si sono in brevissimo tempo riallineati e adattati alla nuova situazione. C’è stato uno tacito accordo tra le parti che ha permesso di bypassare ogni formalità. Un esempio banale: la sparizione della sala riunioni corporate con tutti i suoi riti di “showing off” che si è trasformata nel giro di poche settimane nell’angolo più o meno fotogenico del soggiorno, facendo sparire in un colpo i differenziali socio economici tra clienti fornitori consulenti etc lasciando spazio alle competenze (e alla forza della connessione web, quella sì che è rimasta come differenziazione sociale e geografico).
Lavorando da anni con clienti delocalizzati avevamo già fatto esperienze importanti in questo senso. Penso soprattutto a clienti come FAO United Nations che pur avendo l’headquarter a Roma è strutturato in team di lavoro internazionali delocalizzati ovunque, quindi un caso in cui la decentralizzazione/smaterializzazione dei processi è una realtà già da anni. Lavorando con loro, le condizioni della situazione lockdown sono state assorbite con onda d’urto minima.
Si può essere originali e creare interesse intorno a iniziative differenti dalla nuova consuetudine?
Originali si può e anzi si deve essere. In un mercato improvvisamente privato di ogni occasione di incontro o scambio – pensiamo alle fiere, gli eventi cancellati – la qualità della comunicazione e dei contenuti è cruciale. E per quanto mi riguarda, ciò che ho osservato è che lavorare in condizioni inedite è servito a guardare le cose con punti di vista e “sentiment” nuovi. Ho visto clienti avversi all’utilizzo dei social trasformarsi in Instagram-stories addict, per esempio. La monotonia della vita quotidiana in cattività ha portato ad una forte apertura verso l’esterno che in alcuni casi non avevo mai visto. Questo in alcuni casi ci ha permesso di ampliare lo spettro progettuale spingendoci a proporre (con successo) soluzioni creative che in altri momenti non sarebbero state prese in considerazione.
In che modo le agenzie possono dialogare con efficacia con gli utenti rispettando i valori e le aspettative dei brand?
Principalmente evitando di sottovalutare sia gli utenti che i brand. Credo che soprattutto in un momento come questo sia meglio dar per scontato meno cose possibili – si sono aperti scenari inediti, tanto vale prenderne atto. Concretamente significa prestare maggiore attenzione al sentiment generale, anche alle istanze che sembrano più periferiche. Con una battuta direi che conviene prendere le distanze dal mainstream, o quantomeno impegnarsi a ridefinirlo.
Quanto è difficile oggi comunicare con dei target sempre più eterogenei, considerando il notevole aumento delle piattaforme social?
È difficile, ed è un bene che sia così. Siamo in una fase “darwiniana”, la complessità della fase storica rende evidente l’effettivo divario di capacità strategiche e creative, e non solo per colpa dei “social”.
Parlando di social, e volendo fare un gioco di parole, direi che questa fase ha evidenziato che conviene evitare di “seguire chi segue”. Sto parlando di follower nel senso Twitter /IG del termine ma anche in senso lato.