Le aziende stanno richiedendo un cambiamento del proprio asset comunicativo? Con quali modalità?
I cambiamenti in azienda (soprattutto se di dimensioni importanti) non sono mai istantanei: la pianificazione e l’analisi dei trend avviene in tempi non sospetti e il processo viene governato con i tempi corretti. Tuttavia quello che è accaduto nell’ultimo anno e mezzo per via della pandemia Covid-19, ha spostato in modo dirompente l’asticella del cambiamento e soprattutto ha dato una sferzata ai tempi di adozione di nuove dinamiche. Già l’avvento dei social media aveva costretto le aziende a cambiare radicalmente l’approccio comunicativo e aveva quindi definito l’importanza della coerenza nell’atto comunicativo. L’aderenza alla verità del messaggio era diventata strategica (utilizzo il passato perché sembra passata un’era geologica). I social media hanno imposto la produzione di contenuti veri (o almeno verosimili) in quanto verificabili da chiunque e quindi smontabili in caso di ‘esagerazioni’ – provocando più un danno che un beneficio. Come conseguenza di questa nuova esigenza, anche le piccole e medie imprese hanno sviluppato la necessità di definire e chiarire (prima di tutto a se stessi) la propria mission e il proprio DNA, per poter stabilire i pattern comunicativi e il tono di voce corretto con il quale presentarsi al mondo (e ai mercati). Si è potenziata l’analisi del proprio brand per esplorare capisaldi della propria identità con i quali spiegarsi al mondo. Un po’ quello che è successo con la globalizzazione che ha spinto le diverse nazionalità ad analizzare le proprie peculiarità per caratterizzare le differenze e focalizzare il proprio valore aggiunto rispetto agli altri. Il brand e la definizione della brand identity sono diventati termini di uso comune nell’ultimo decennio, portando luce sulla profondità dei valori che interessano al mercato, stabilendo i pilastri portanti di come ci si pone verso l’esterno. Questa scoperta (o riscoperta) della brand identity sta diventando ancora più strategica in una fase come quella che stiamo vivendo, dove il cambiamento è oramai diventato endemico non solo nelle aziende ma nella società tout court. Come professionista lotto quotidianamente su queste tematiche per aiutare i miei clienti ad impostare una strategia e cercare di abbandonare le dinamiche del passato (purtroppo ancora molto radicate nell’imprenditoria italiana a livello impiegatizio: gli imprenditori sono molto spesso illuminati, ma sono circondati da collaboratori e dipendenti impermeabili al cambiamento e ai nuovi approcci richiesti da un mondo in fortissima trasformazione). Oggi non si possono più affrontare i problemi con semplici cambiamenti di tattica, ma è necessario sviluppare una strategia con ampie vedute per potersi adattare ai nuovi tempi: quello che ci aspetta sarà davvero una rivoluzione del mondo produttivo e sociale come l’abbiamo conosciuto e nessuno può permettersi più di vivere di rendita, conseguenza l’estinzione nel giro di un lustro.
In che modo si è riuscito a comunicare in un periodo di pandemia? Che difficoltà si sono incontrate sui diversi fronti merceologici? Si può essere originali e creare interesse intorno a iniziative differenti dalla nuova consuetudine?
L’omologazione nella comunicazione è qualcosa che già da diversi anni è un fatto. Questo perché le strutture di marketing aziendali (in base alla mia esperienza diretta) sono legate mani e piedi ai risultati commerciali nel breve termine e quasi nessuno è a proprio agio ad assumersi rischi, un po’ per pigrizia e un po’ per esigenze aziendali: gli obiettivi imposti dai vertici sono sempre più ambiziosi e a breve termine. Questo approccio si aggancia a quanto scritto prima: non si riesce ad impostare una strategia credibile forse perché si è sempre alla rincorsa di un problema da risolvere (che sia necessità di vendere di più o un imprevisto da gestire). Questo argomento è stato messo in luce in modo impeccabile da Elio Carmi, nel libro Branding. Una visione design oriented (di Elio Carmi, Elena Israela Wegher – Fausto Lupetti Editore, 2009), con l’analisi del caso della birra Miller. Consiglio a chi non l’avesse letto di approfondire l’argomento, perché rispecchia una casistica ancora (purtroppo) molto diffusa. Ma se vogliamo, è facile da comprendere perché alla fine ha alla base il buon senso: anche nella vita quotidiana di tutti noi ci sono obiettivi da raggiungere e imprevisti da affrontare. Nelle cose più complicate ma anche in quelle più semplici. Si buca la gomma dell’auto mentre devo recarmi ad una riunione, si rompono le tubature del bagno mentre sono in vacanza… Nella nostra vita ci rifacciamo a pattern sociali, definiti in decenni di esperienza. Abbiamo costruito dei sistemi e delle sovrastrutture che ci aiutano a governare gli imprevisti e ad espletare tutti i passi necessari per raggiungere i nostri obiettivi. Purtroppo questo non avviene in automatico anche nel caso delle aziende per diversi motivi: il problema principale non è la mancanza di visione (come spesso si appunta) ma è insito nella catena che trasmette le informazioni dal vertice a chi segue l’operatività. Troppo spesso gli intenti sono ottimi ma l’esecuzione è mediocre, proprio perché le strutture sono composte da individui e non tutti sono consapevoli e affini nell’affrontare i processi con procedure allo stato dell’arte. Ecco perché sempre più si cerca di creare empatia e passione tra gli organismi aziendali.
Però anche questo passaggio non è semplice e, complice un’istruzione non all’altezza, radicata nella nostra società italiana (ancora troppo poco progressista e assai conservativa), rende a volte il compito arduo se non impossibile. Le aziende anglosassoni sono invece molto più flessibili e aperte alle novità, proprio per via dell’impostazione culturale più legata al merito e per nulla allo status quo. Sono quasi trent’anni che si parla di questa necessità di rinnovare l’approccio culturale del nostro Paese e forse (forse, forse, forse) a questo giro ne siamo davvero costretti per evitare la catastrofe economica post Covid-19. Però si vedono resistenze molto potenti a diversi livelli e la buona riuscita dell’operazione non è del tutto scontata. Questa digressione è doverosa, perché banalmente è IL problema di tutti gli individui che vogliono fare impresa (e comunicazione) nel nostro Paese.
Ci sono rari casi che per motivi fortuiti, uniti a brillantezza e bravura imprenditoriale si sono trasformati in fenomeni di eccellenza e unicità globali, però visto il potenziale creativo del sistema Italia, sono ancora troppo pochi. I ‘creativi italiani’ sono apprezzati in tutto il mendo e riescono a dare il meglio quando si trovano ad operare in contesti internazionali, perché (l’ho già scritto in un mio vecchio blog e lo ripeto ogni anno ai miei studenti ndr.) forse per un alchemico caso del destino, noi italiani siamo abituati, fin da piccoli, ad agire e operare in un contesto avverso: il semplice rinnovo di una patente o la richiesta di apertura di un’attività (per restare in tema) diventano imprese titaniche. La documentazione cartacea che dobbiamo produrre e i tempi di attesa per l’approvazione delle pratiche sono disumani. E per questo motivo, secondo una teoria non tanto campata in aria, ci attrezziamo ad essere ‘creativi’, prevenendo certe distorsioni della nostra burocrazia e agendo in modo proattivo per superare i numerosissimi ostacoli davanti al nostro obiettivo. Per questo, quando ci troviamo ad operare in un contesto ‘normale’, dove le cose funzionano davvero, diventiamo dei giganti, proprio perché abbiamo sviluppato un modo di ragionare appunto ‘creativo’: una specie di selezione naturale rispetto a paesi dove il rinnovo della patente avviene in mezza giornata e aprire un’attività è possibile in una settimana. Così le nostre menti migliori diventano i guru del problem solving. Quindi osare diventa fondamentale, per non lasciarsi traportare dagli eventi. E inseguire sempre i concorrenti diventa sfiancante, serve una strategia e le persone giuste per attuarla. La professionalità e la competenza non si improvvisano: ci sono alle spalle anni di studi e di formazione teorica e sul campo che devono essere valorizzati. Altrimenti si rischia di fare la fine della birra Miller.
p.s. La birra Miller a furia di rincorrere i competitor e snaturare la propria identità anno dopo anno (passando da birra per intenditori a birra nazional popolare in un batter di ciglia), alla fine si è resa irriconoscibile: non era più percepita in un modo chiaro dai clienti (acquisiti e potenziali) e alla fine invece di incrementare le vendite è arrivata sull’orlo del fallimento.
In che modo le agenzie possono dialogare con efficacia con gli utenti rispettando i valori e le aspettative dei brand? Quanto è difficile oggi comunicare con dei target sempre più eterogenei, considerando il notevole aumento delle piattaforme social?
Innanzitutto come insegna Paolo Iabichino (con il New Train Manifesto, redatto assieme agli studenti della scuola Holden di Alessandro Baricco) oggi non si può più parlare di target ma di interlocutori. I social media hanno amplificato le dinamiche del dialogo: la comunicazione non è più unidirezionale, l’azienda non può più comunicare la propria verità… ma deve comunicare in modo vero e genuino. Pena la smentita e la disaffezione dei propri follower. I brand oggi devono sempre più trasformarsi in Love Mark: la generazione Z impone scelte di verità e trasparenza di pura attenzione e matrimonio con le tematiche sociali e ambientali. La mancanza di questa sensibilità pregiudica alla fonte la possibilità di instaurare un rapporto con i propri interlocutori (tali o potenziali). I canali vanno aperti affrontando con attenzione le tematiche suddette in modo vero e credibile. Aggiungo che la ‘credibilità’ è oggi il valore reputazionale più importante per un brand e con essa (che diventa autorità se perseguita nel tempo) un brand diventa un Love Mark. Le nuove generazioni sono infatti molto attente alle tematiche che impattano sullo sviluppo sostenibile e sull’integrazione sociale e di conseguenza scelgono i brand in base a questa metrica: diventa quasi una scelta di campo che esprime nell’identificazione nei valori di una marca una scelta di campo (quasi radicale). Se quindi un brand non ricerca questi valori nel proprio DNA e non sceglie di sostenerli in modo sincero, rischia l’esclusione e l’impossibilità di aprire un canale di comunicazione con le nuove generazioni. La difficoltà nell’impostare un approccio di questo tipo è del tutto insita nella propria volontà e sensibilità, nell’attitudine di mettersi in discussione e rinnovarsi.
Un esempio concreto di un cambio di approccio sta avvenendo con alcuni fashion brand. La moda difficilmente riesce a posizionarsi in modo etico rispetto ad alcune tematiche: come per esempio i metodi produttivi, piuttosto che l’utilizzo di prodotti inquinanti o addirittura lo sfruttamento del lavoro minorile… abbiamo letto e sentito di scandali di questo tipo negli anni recenti soprattutto legati alle produzioni in oriente. Già di per sé il prodotto della moda è un bene voluttuario e quindi superfluo nell’ottica di sostenibilità abbracciata dalle nuove generazioni. Questo contesto merceologico è però ricco di esempi di brand che hanno intrapreso un percorso di ri-posizionamento più in linea con le sensibilità attuali.
Per esempio Nike (brand prevalentemente legato allo sport ma divenuto ultimamente iconico nel mondo fashion) ha intrapreso una comunicazione che trascende la prestazione del prodotto e ha sposato tematiche sociali legate alla denuncia delle ingiustizie (https://www.youtube.com/watch?v=WA4dDs0T7sM). Già Oliviero Toscani aveva attuato un approccio (ante litteram) alla comunicazione del marchio United Colors of Benetton completamente sbilanciata sulle tematiche sociali, arrivando fino al punto di eliminare completamente il prodotto dagli ADV. Oggi gli approcci sono più raffinati e sofisticati, ma riprendono quel modo di porsi già esplorato dal fotografo alcune decine di anni fa.
Un altro esempio è quello della recentissima campagna di comunicazione di Balenciaga (dedicata esclusivamente ai canali social) che ha centrato il messaggio sul ritorno alla libertà dopo il lockdown e sulle cose che contano davvero nella vita ( https://www.youtube.com/watch?v=sKBO0QehEfo&t=9s). Il tentativo di affrontare tematiche legate all’amore, all’etica, ai valori, è diventata una priorità anche per brand che rappresentano forse una delle massime espressioni del consumo fine a sé stesso. Questo è il segnale che la comunicazione si deve rinnovare in un’ottica di verità e deve divenire veicolo di valori: ogni brand avrà i propri valori e su quelli deve creare il proprio unico racconto.