Le aziende stanno richiedendo un cambiamento del proprio asset comunicativo? Con quali modalità?
Molte aziende stanno trasformando la loro comunicazione per adeguarla a uno scenario che è profondamente cambiato, continua a essere complicato ma presenta anche delle opportunità. Le persone – nei loro diversi ruoli di consumatori, lavoratori, cittadini – sono in cerca di nuovi equilibri, sono cambiati dei concetti chiave come la casa, la salute, il benessere, stanno evolvendo di conseguenza molte logiche di relazione, anche rispetto alle marche e ai comportamenti d’acquisto.
In questo contesto, le imprese sono attori sociali prima ancora che economici. Alle aziende viene chiesto di essere responsabili, garantire occupazione, ma anche di integrare il sistema di welfare pubblico ed essere in prima linea sul fronte dell’ambiente e dei cambiamenti climatici. La comunicazione deve rispondere a queste istante – ovviamente preceduta dall’azione, altrimenti ha ben poco valore e rischia anzi di essere controproducente.
Vediamo anche uno sguardo diverso, per certi versi più critico, rispetto ai media e i canali della comunicazione, con la richiesta di trovare modalità ad ampio raggio e al tempo stesso autorevoli per costruire reputazione e fiducia sia all’interno dell’organizzazione, sia all’esterno.
In che modo si è riusciti a comunicare in un periodo di pandemia? Che difficoltà si sono incontrate sui diversi fronti merceologici? Si può essere originali e creare interesse intorno a iniziative differenti dalla nuova consuetudine?
Nella prima fase di emergenza e lockdown, molte aziende hanno sospeso o ridotto al minimo la comunicazione. In alcuni settori abbiamo visto invece una moltiplicazione di messaggi empatici e un po’ sentimentali, ispirati da parole chiave come #andràtuttobene e #insiemecelafaremo che hanno omologato i brand in una narrazione che è diventata un cliché.
Poi, gradualmente il ‘Siamo qui per te’ è diventato ‘Cosa facciamo per te’, spostando la comunicazione sulle dimensioni della salute e della sicurezza. La narrazione, ad esempio nella grande distribuzione e nel turismo, ha abbracciato quello che è stato definito protection storytelling e si è concentrata sulla rassicurazione dei clienti.
Oggi, a un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, il virus non smette di preoccupare, c’è senz’altro voglia di ripresa e normalità, ma non possiamo ignorare la grave crisi economica e sociale che stiamo attraversando. Le aziende possono essere originali e accattivanti, ma è credibile solo chi riesce ad ancorare la comunicazione al purpose, facendosi guidare dai valori e coinvolgendo innanzitutto dipendenti e collaboratori. In questa fase serve grande sensibilità ed empatia, tenendo conto che stiamo vivendo una situazione tuttora eccezionale, con dinamiche molto particolari.
I social media hanno assunto un ruolo fondamentale nella vita di tutti noi. In che modo le agenzie possono dialogare con efficacia con gli utenti rispettando i valori e le aspettative dei brand? Quanto è difficile oggi comunicare con dei target sempre più eterogenei, considerando il notevole aumento delle piattaforme social?
Nel 2020 anche i più scettici si sono avvicinati ai social, spesso ne sono stati quasi costretti, e alcune funzionalità prima poco note sono diventate all’improvviso popolari, come gli eventi live o lo shopping tramite realtà aumentata. Le piattaforme sono aumentate e sono cresciute, ma c’è anche maggiore consapevolezza delle distorsioni che possono generare, ad esempio favorendo il proliferare di fake news e spirali di disinformazione, hate speech e cybullismo. Molte persone sono attive su più social, ma ciascuna piattaforma tende ad avere un’identità meglio definita, quindi paradossalmente ad aggregare comunità più riconoscibili.
Non si può dire tutto a tutti, usando tutti i social! Le aziende possono essere efficaci se riescono a selezionare un pubblico molto preciso, a comprendere bene le sue aspettative e il suo linguaggio, a studiare dei contenuti che riescano a coinvolgerlo attivando le leve giuste. I brand che vogliono dialogare con la Generazione Z potrebbero ad esempio scegliere la strada della creatività collaborativa, ovvero aprirsi alla co-progettazione dei contenuti e utilizzare i social come strumento di co-realizzazione. Lo fanno sempre più spesso cantanti e artisti, ma possono farlo anche i brand integrando questi user generated content nelle loro strategie di content marketing.